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Concettina

Racconto publicato su "La Voce del Savuto" in 6 puntate mensili,

da settembre 2002 a febbraio 2003.

       Oggi vi voglio raccontare la storia di Concettina e del suo negozio.
Il commercio è considerato un’attività tipicamente maschile. Ma quando viene gestito da donne, queste riescono ad ottenere risultati impensabili per gli uomini.

Concettina era una donnina minuta, e aveva un negozio di alimentari, che un tempo era  stato l’unico negozio del paese. Era di sua madre e prima ancora di sua nonna. In origine il negozio, essendo l’unico, vendeva di tutto, era un emporio, ed aveva anche avuto il telefono pubblico. Poi, con il nascere di altri negozi più specializzati (ferramenta, stoffe, sementi, ecc.) aveva poco a poco ristretto il suo campo ai soli generi alimentari. E i guadagni erano ancora diminuiti con l’apertura di altri negozi di alimentari. In origine il negozio era anche osteria e facevano pure da mangiare. Poi, essendo gli uomini della famiglia impegnati in altre attività, ed essendo la bottega sempre più frequentemente affidata alle cure delle sole donne, l’attività di osteria era stata ridotta fino a alla sola vendita di vino, e l’attività di trattoria era stata completamente abbandonata. Il telefono pubblico era stato tolto e dato ad un bar. Nei tempi andati il negozio era stato anche oggetto di diversi furti. Succedeva che la notte scendevano i ladri dalle montagne ed andavano a rubare proprio lì, che era l’unico posto del paese in cui ci fosse qualcosa da rubare. L’ultima volta la sorella del medico, che abitava vicino, avendo sentito dei rumori, aveva preso il fucile ed aveva iniziato  a sparare dalla finestra. Altri, sentendo sparare, presero a loro volta il fucile e iniziarono a sparare in aria. I ladri scapparono via e da allora non sono più tornati. Erano tempi in cui c’era un fucile in ogni famiglia, eppure c’era meno violenza. La gente si difendeva a vicenda e c’era più solidarietà. Adesso vengono svaligiate con calma intere case, e nessuno vede e sente niente.

Di recente ignoti ladri erano entrati nell’orto adiacente alla casa della signora Rosetta approfittando della sua assenza, ed avevano rubato quasi tutti i conigli. Avevano lasciato solo quelli piccoli, che ancora dovevano allattare. Quando la signora Rosetta era tornata ed aveva scoperto l’accaduto si era disperata, ma non aveva potuto fare niente. Era impossibile individuare i ladri. Nessuno aveva visto e sentito niente. Anche se i conigli erano solo una decina i ladri avranno pur dovuto fare qualche rumore; eppure hanno agito indisturbati. La signora Rosetta non aveva potuto far altro che sfogare la sua rabbia maledicendo i malfattori: “Gli auguro di restare orfani così come sono rimasti orfanelli i coniglietti miei”.

 Per i paesani il nome del negozio di Concettina era rimasto “la bottega”, come quando era l’unico del paese. Concettina era rimasta vedova, dopo che il marito era morto in un incidente in una miniera in Belgio nel 1965. In sei anni di matrimonio avevano avuto cinque figli, l’ultimo nato dopo la morte del padre, che adesso gravavano tutti sulle sue spalle. Il marito era bracciante, e con i suoi magri guadagni e quel poco che riuscivano a guadagnare dal negozio riuscivano  a tirare fuori il minimo per sopravvivere.

            Avevano anche un piccolo appezzamento di terra in collina, in cui il marito, rompendosi la schiena di lavoro, era riuscito a piantare una vigna, e da cui tiravano fuori il vino per il “bisogno di famiglia”, e il poco che avanzava lo vendevano. Dopo la morte del marito, il suocero di Concettina, resosi conto che non era lavoro per una donna curare una vigna, vi aveva piantato degli ulivi. E ancora adesso che gli ulivi erano diventati grandi e la vigna era stata tagliata, quando si riferivano a quel terreno lo chiamavano “la vigna”.

 Il marito di Concettina, già prima di sposarsi, era emigrato, ed era andato in Svizzera, dove faceva il manovale nell’edilizia. Qui non si era trovato molto bene; diceva che gli svizzeri erano razzisti. In Italia, dopo la fine della guerra, ci si era andati abituando ad una certa libertà. La gente aveva cominciato a partecipare all’attività di partiti e sindacati. Il marito di Concettina sosteneva che in Svizzera si stava come in Italia durante il fascismo: i lavoratori stranieri, erano tollerati fino a quando si limitavano a lavorare, ma quando qualcuno iniziava ad interessarsi di attività sindacali e di rispetto dei propri diritti, cominciava a subire l’attenzione delle autorità: un bel giorno la polizia lo prelevava e lo rispediva in Italia senza nessuna spiegazione. Una volta ad un altro emigrato italiano, che lavorava in una stalla, era capitato, per sbadataggine, di versare del latte appena munto. Per non far accorgere il padrone e subire un richiamo, aveva ingenuamente sostituito il latte versato con dell’acqua. Ma gli svizzeri controllavano la qualità del latte, e si accorsero che nel latte c’era acqua, e così individuarono l’operaio italiano e la polizia perquisì la sua casa e le case di tutti i suoi amici italiani, alla ricerca di latte rubato. Ci volle molto per far capire alla polizia svizzera come erano andati veramente i fatti e a fargli capire che si era trattato solo di un incidente e di un’ingenuità commessa per paura. Così, dopo qualche anno, il marito di Concettina, tornò in Italia e si sposarono.

Al paese lavorava da bracciante o da manovale, secondo le occasioni che capitavano. Quando raccontava l’episodio del latte diceva: “Noi siamo poveri e morti di fame, ma non manderemmo mai una persona in galera per qualche litro di latte”.

Ma per mantenere la famiglia era stato costretto ad emigrare di nuovo. Stavolta era andato in Belgio a fare il minatore nelle miniere di carbone. Era un lavoro duro, ma almeno non c’era l’atmosfera opprimente della Svizzera. E con quello che riusciva a risparmiare e a mandare a casa Concettina ed i figli riuscivano a fare una vita decorosa, indipendentemente dall’andamento alterno del negozio. Erano tempi in cui chi emigrava, in Germania, in Svizzera, in Francia, in Belgio, in Olanda, era considerato un privilegiato. Non si badava agli affetti, alla solitudine, allo sradicamento, alla famiglia abbandonata. Si guardava solo ai soldi che la famiglia rimasta in Italia riceveva dall’estero, e che in Italia era impensabile riuscire a guadagnare. 

Dopo la morte del marito a Concettina era rimasto solo il negozio per mandare avanti la famiglia. Tirò fuori tutta l’esperienza che la sua famiglia aveva accumulato da generazioni di commercio e che lei aveva inconsciamente assimilato sin da quando bambina passava le sue giornate a giocare nella bottega. La bottega di Concettina era una di quelle di una volta, in cui, in una stanza sulla strada c’èra il negozio, e sul retro e al piano di sopra c’era l’abitazione. Ad una parete erano appesi i ritratti dei genitori e quello del marito di Concettina. Quelli erano altri tempi, in cui non si parlava di riposo e  di chiusura infrasettimanale e i negozi di alimentari erano aperti anche la domenica mattina, fino alle 11, per vendere il pane fresco. Insomma, si lavorava sempre, anche perché Concettina vendeva pure le bombole del gas, ed il gas poteva finire in qualsiasi momento. Se la bombola del gas finiva di domenica non si poteva aspettare il lunedì per cucinare e per mangiare. 

Uno degli espedienti che Concettina aveva escogitato per guadagnare qualcosa in più era quello del doppio prezzo. I fornitori con lei erano più cortesi, sia perché era una donna, sia perché conoscevano la sua situazione di donna sola con cinque figli. Quando le portava il formaggio, il ragazzo del grossista, invece di abbandonarglielo sul banco e saltare subito sul furgone ed andare via, le chiedeva: “Signora Concetta, dove volete che lo lascio il formaggio?” E Concettina gli indicava di metterne la metà in uno scaffale e l’altra metà in un altro scaffale un poco più in là. Le non molte forme di formaggio che Concettina acquistava sarebbero entrate tutte in uno scaffale, ed era strano che venisse messo in due scaffali separati, anche perché il formaggio era tutto uguale. Ma probabilmente il ragazzo neanche si accorgeva di questa stranezza e faceva come Concettina gli diceva.

Quando arrivava un cliente a chiedere se avesse del formaggio, Concettina gli indicava quello nel primo scaffale e gliene elogiava le qualità: “… Questo è il formaggio buono … di pecore di montagna … fatto con metodo artigianale … come si faceva una volta“, ed infine gli diceva il prezzo (un poco più alto del normale). Poi indicava il secondo scaffale “… E questo è il formaggio normale … pure questo è buono … è quello che prendono tutti “, e qui diceva il prezzo giusto. Quasi sempre, anzi, sempre, il cliente, che poi generalmente era una cliente, sceglieva di prendere il formaggio “di quello buono” e non di “quello che prendono tutti”. E così di giorno in giorno il formaggio “buono” diminuiva, mentre “quello che prendono tutti” restava al suo posto nello scaffale. Tanto che la sera, dopo la chiusura, Concettina era costretta a spostare il formaggio “che prendono tutti” nello scaffale di “quello buono”.

 E’ da notare la fine psicologia di Concettina. Lei non aveva un prodotto “buono” a caro prezzo ed uno “cattivo” a prezzo basso. Lei aveva solo formaggio buono. E il prodotto “meno buono” non era un formaggio scadente che non voleva nessuno, ma era “quello che prendono tutti”. E poi la differenza di prezzo era lieve, e non esosa come quelle che possiamo vedere oggi tra negozi diversi. Concettina conosceva la psicologia dei suoi clienti. Ricordava di quando sua mamma faceva ancora da mangiare, e quelli che venivano dai casali di montagna per il mercato si fermavano a mangiare in trattoria. Ordinavano la bistecca ai ferri e poi ne lasciavano metà nel piatto “come fanno i signori” per non fare brutta figura. E se ne andavano via affamati ma contenti.

 Pure per il vino Concettina usava la stessa tecnica. Ne aveva sempre due botti, che comprava dallo stesso fornitore e che contenevano lo stesso vino. C’era la botte  di “quello buono”, che costava di più, e poi c’èra “quello che prendono tutti”, che era vino sempre buono e fatto di uva, ma, diceva Concettina, veniva dalla Sicilia, e costava di meno. C’era come la convinzione che il vino della Sicilia, forse perché prodotto in grandi quantità, fosse meno buono di quello calabrese. Quando verso l’ora di pranzo arrivava qualche ragazzo con la bottiglia vuota da riempire diceva immancabilmente “Ha detto mio padre di darmelo di quello buono, non di quello della Sicilia”. E pure il vino, per essere venduto, dopo la chiusura, spesso doveva passare dalla botte di “quello che prendono tutti” alla botte di “quello buono”. Non c’era una grande vendita di vino perché in molti se lo producevano in proprio, e siccome quasi sempre la produzione superava le esigenze della famiglia, il di più lo vendevano. Allora per indicare che si vendeva vino bastava appendere una “frasca”, un ramo d’ulivo, in alto, allo stipite della porta.

 Anche per quelle merci che non poteva dividere o di cui non poteva averne di qualità inferiore Concettina usava la sua abilità per aumentare i prezzi. Quando la cliente veniva a chiedere della provola, Concettina, che aveva solo provola Galbani, diceva “Questa è di quella buona … è della Galbani … è quella che si vede in televisione”, e diceva il prezzo, come al solito un poco più alto del dovuto. Poi diceva “Ne abbiamo anche dell’altra, di quella che prendono tutti, che costa di meno”. Non era vero. Lei aveva solo la provola Galbani. Ma dell’altra, di “quella che prendono tutti” nessuno ne aveva mai chiesto. E, se mai fosse successo, avrebbe detto che era appena finita, perché se ne consuma molta e tutti chiedono solo quella.

Di ogni prodotto lei ne aveva sempre di un altro tipo “di quello che prendono tutti”, che costava di meno e che nessuno mai le chiedeva.

 Se a volte qualcuno obiettava qualcosa sui prezzi che salgono sempre e sui soldi che non bastano mai lei aveva già la risposta pronta: “I soldi è meglio spenderli qui che in farmacia”, che se non sempre soddisfaceva il cliente, almeno serviva per cambiare discorso.

Vi parlerò adesso del professore Birbante. Il professore Birbante, come tutti lo chiamavano, non era un professore ma era un maestro elementare. E nonostante il suo cognome era una bravissima persona, un gentiluomo all’antica. Era stato il primo, ed allora unico, maestro del paese, ed uno dei personaggi più importanti. Sin da  quando la suola elementare era costituita da cinque stanze (una per classe)  prese in affitto dal comune. Ma anche adesso che la scuola elementare aveva un suo edificio e che egli era quasi arrivato all’età della pensione, il professore Birbante godeva ancora di molta considerazione, tanto che i genitori facevano a gara per mandare i figli a scuola nella sua classe, memori delle sante bacchettate con cui li aveva educati e aveva fatto imparare loro le tabelline. Il professore Birbante era rimasto un maestro all’antica, non aveva adottato i nuovi metodi didattici della scuola elementare. L’unico principio che seguiva era quello che, per imparare, il bambino doveva essere interessato a quello che faceva. Una sola cosa aveva cambiato rispetto a quando era giovane: non usava più la bacchetta per castigare gli alunni più indisciplinati. Ma aveva un tale metodo nel richiamare e rimproverare i ragazzi che questi avrebbero preferito cento volte di più essere picchiati, piuttosto che starlo a sentire. A volte era un po’ burbero: quando sentiva qualche giovane maestra che diceva ad una mamma “Il bambino è rimasto indietro, dovrebbe essere seguito di più a casa”, esclamava: “E a lei lo stipendio perché glielo danno?”.

 Il professore Birbante era stato il primo in paese a comprare l’automobile. Ancora prima del medico e del sindaco. Con quella sua automobile aveva fatto tanti viaggi per portare malati in ospedale. E per portare bambini a fare qualche visita specialistica. Praticamente aveva fatto da auto pubblica. Almeno fino a quando non era arrivato il nuovo parroco. Quando il vecchio parroco Don Arturo si era ritirato era arrivato Don Ferdinando che aveva portato un’aria di freschezza in parrocchia. Aveva messo i biliardini nell’oratorio e portava in giro i ragazzi con la sua macchina. Non che fosse benestante. La macchina era una topolino che gli aveva comprato la mamma  con i suoi risparmi di vedova di guerra quando era stato ordinato sacerdote. Quando era arrivato Don Ferdinando c’èrano già diverse macchine in paese, ma quelli che non ce l’avevano, adesso si rivolgevano a lui e non più al maestro Birbante, per portare i bambini “a fare i raggi”. Forse pensavano che il sacerdote era più adatto del maestro a svolgere questo servizio di pubblica utilità. Quando il maestro Birbante passava per le strade malandate con l’unica automobile del paese era un’attrazione. Le galline, che prima erano le padrone delle strade, scappavano via. Anche se ogni tanto c’era qualche chioccia con i suoi pulcini che, per nulla intimorita dal rumore della macchina, si ostinava ad occupare la strada, e se ne stava comodamente accovacciata, come se fosse ancora lei la padrona. Allora il professore Birbante fermava l’automobile, scendeva, si toglieva il cappello,  e gesticolando si avvicinava alla gallina gridando “sciò, sciò, …”, fin quando questa decideva di allontanarsi con la sua famigliola. Allora il professore risaliva in macchina e ripartiva. “Cose d’altri tempi” diranno i miei affezionati lettori. Un automobilista di oggi non esiterebbe a schiacciare sotto le ruote gallina e pulcini.

Anche se non il primo, il professore Birbante era stato tra i primi ad avere la televisione. L’aveva sistemata nel soggiorno, che era nell’ingresso della sua casa, a piano terra. Così quando nelle calde serate primaverili ed estive lasciava, come si usava allora, la porta aperta, frotte di ragazzini si sedevano sui gradini e sulla soglia per guardare la televisione. Non interessava quale fosse il programma. Contava la novità. Si guardava la televisione e basta. In religioso silenzio, qualunque cosa si trasmettesse. Poi arrivavano altri ragazzini, che spingevano più in dentro quelli arrivati prima, fino a quando tutto il pavimento del soggiorno del professore Birbante era occupato da bambini che guardavano la televisione. Più tardi si cominciavano a sentire le voci delle mamme che chiamavano i figli per la cena, e poco a poco il soggiorno del professore Birbante si svuotava. Poi anche i bar misero la televisione, e a poco a poco le varie famiglie si dotarono del prezioso elettrodomestico. Non tutte però. Alcuni, soprattutto se non avevano figli piccoli, rifiutarono il nuovo mezzo di comunicazione, e rimasero fedeli ascoltatori della radio.

 La scuola era tenuta in grande considerazione, e di conseguenza anche i maestri. A quei tempi, quando arrivava la buona stagione, ed i bambini che uscivano da scuola sciamavano per le campagne, facendo razzia di ciliegie, il contadino, quando se ne accorgeva, li andava ad inseguire  gridando e sbraitando, e quando, trafelato e ansimante, si rendeva conto che ormai non poteva più raggiungerli, gli gridava dietro: “Vai a scuola e rubi!?” Il contadino, che non era potuto andare a scuola, nella sua ignoranza credeva che a scuola si imparasse non solo a leggere e a scrivere, ma anche a non rubare. Considerava la scuola come un mezzo di elevazione sociale, materiale e morale. Nella sua logica il ladro era la persona abbrutita dal bisogno e dall’ignoranza. Questi ragazzi che potevano andare a scuola invece che a lavorare erano sicuramente benestanti, e perciò non avevano bisogno di rubare. E poi a scuola non gli insegnavano l’educazione? 

 Il professore Birbante non c’entra molto con Concettina, ma la sua storia può servire a capire meglio l’ambiente in cui si svolgono i nostri fatti, e poi c’entra la moglie del professore Birbante, anzi, ce la fa entrare di forza Concettina.

 La moglie del professore Birbante non era del posto, veniva da un altro paese, apparteneva ad una famiglia di signori, ed aveva dieci anni meno del marito. In paese era stata ben accettata ed era rispettata, anche perché era la moglie di un tale personaggio. Era una delle poche donne che parlavano sempre in italiano, invece che in dialetto. E adesso che tutti i figli erano laureati e sposati, si dedicava al lavoro a maglia e all’uncinetto, di cui era una vera esperta. A causa di questa sua esperienza spesso girava per le case per vedere, mostrare, discutere, consigliare, ed era forse più conosciuta del marito, almeno tra la popolazione femminile. A dire la verità qualche volta la signora Birbante parlava in dialetto: era quando citava qualche proverbio o qualche brano di poesia dialettale, come “Cinquant’anni passaru ‘ntantu, /  comu ‘nu sonnu, comu ‘nu ‘ncantu’”,  quando pensava ai suoi anni passati in quel paese che l’aveva accolta giovane sposa. Il marito invece, di fronte alle palesi ingiustizie che capitavano tutti i giorni era solito citare i versi dell’Abate Martino: “Giustizia di lu celu s’affacciau; catti ‘nterra e si puttanijau”. 

 Concettina, quando doveva insistere per vendere qualcosa, citava la moglie del professore Birbante. Alla cliente che le chiedeva delle scatolette di tonno sott’olio Concettina consigliava sempre “quelle buone” che costavano sì un po’ di più, ma erano quelle che “compra la moglie del professore Birbante”. Così per le mozzarelle “Queste sono di quelle buone, sono quelle che compra sempre la moglie del professore Birbante. Ne compra moltissime”. Se si chiede della marmellata: “Se sapeste quanto ne consuma la moglie del professore Birbante! Ogni volta che va a trovare qualche figlio ne compra una scatola intera”. Il caffè? “Questo è quello che compra la moglie del professore Birbante. Il marito non ne vuole di nessun’altra marca”. Per non parlare poi di bibite ed acqua minerale, che sembrava che la moglie del professore Birbante consumasse in quantità industriali. Se qualcuno avesse potuto tenere conto di tutto quello che, a detta di Concettina, consumava la moglie del professore Birbante, sarebbe arrivato a quantità impressionanti, più compatibili con i consumi di un ristorante che con quelli di due anziani soli.

             Un’altra persona conosciuta nel paese era la signora Angelina. Sulla sua porta c’era scritto “Ostetrica”, ma tutti la chiamavano “mammina”, e qualcuno che voleva fare sfoggio di cultura la chiamava “levatrice”. La signora Angelina era veramente un personaggio notevole. Era alta e grossa, portava delle scarpe con il tacco alto, aveva i capelli curati dal parrucchiere, e sempre il rossetto sulle labbra. Portava sempre il soprabito e parlava in italiano. Si spostava sempre a piedi e quindi la si notava subito per le strade quando andava a fare qualche visita. Appena la notavano i bambini le andavano appresso. Lei si fermava e domandava: “Tu come ti chiami?”, “Tu come ti chiami?”. E lei ricordava di chi erano figli e quando erano nati. Erano passati tutti per le sue mani.

             Tutt’altro tipo era la “Zia Nunziata”. La Zia Nunziata era grossa quanto la signora Angelina, ma era molto più bassa, e vestiva in modo popolare. Aveva il compito di portare e di andare a prendere i bambini all’asilo delle monache. Allora non esistevano le scuole materne né statali né comunali, o, come si chiamano adesso, “scuole dell’infanzia”, e l’asilo delle monache era l’unico posto in cui si potessero lasciare i bambini piccoli. E siccome non esistevano neanche i pulmini per trasportare i bambini, coloro che lavoravano o avevano altri impegni incaricavano la Zia Nunziata per portare i bambini all’asilo. E ogni giorno verso le cinque la si vedeva per le strade del paese col suo grande scialle sulle spalle circondata dai bambini che doveva accompagnare a casa. La Zia Nunziata, così bassa e grossa, con il suo grande scialle, circondata da bambini da tre a cinque anni che la seguivano ubbidienti, sembrava proprio una chioccia con i suoi pulcini.

A proposito dell’asilo, le monache che lo gestivano cercavano, per quanto in loro potere, di opporsi all’avanzare della “modernità”. Anche se allora di modernità ce n’era ben poca, e, di quella poca, ne arrivava ancor meno in quello sperduto paese del sud. E così pretendevano che solo i bambini vestissero con i pantaloni, mentre le bambine dovevano obbligatoriamente avere la gonna, per mantenere chiara la distinzione tra i sessi. Perciò richiamavano quelle poche mamme che, anche per ripararle dal freddo invernale, osavano mettere i  pantaloni alle bambine. Addirittura si opponevano anche all’uso dei primi collant di lana, che, secondo loro, non erano altro che dei pantaloni maschili. Cosa direbbero adesso quelle sante donne a vedere le mamme che portano anche i bambini maschi dall’orefice per fargli mettere l’orecchino?

            Non è che le monache non avessero senso pratico. Anzi, erano molto brave ad amministrare e ad accumulare. Molta gente andava a portare regali al convento, soprattutto alimentari, perché venissero utilizzati per i poveri. E in effetti le monache aiutavano molta gente. Ma alcune pie sorelle annoveravano tra i poveri solo i propri parenti. Tanto che era considerata una fortuna avere nella parentela la classica “zia monaca”, che riusciva sempre a mettere qualcosa da parte per la famiglia, e all’occorrenza riusciva a trovare la “via giusta” per far avere un posto di lavoro, saltando ufficio di collocamento, anzianità e graduatorie.

           Vi avevo accennato al vecchio parroco Don Arturo. Anche questo era un personaggio notevole, un uomo di cultura ed un osso duro, che, nonostante le difficoltà ed il rifiuto di contribuire del vescovo, era riuscito a trovare i soldi per costruire una nuova chiesa, quando si era reso conto che quella preesistente non bastava più per contenere tutti i fedeli. Anche lui, a modo suo, cercava di opporsi all’avanzare della modernità. Spesso aveva duramente rimproverato in confessionale quelle poche donne che avevano pochi figli, accusandole di opporsi alla volontà di Dio. Tanto che queste, sentendosi umiliate, non andavano più a confessarsi. Ma, essendo comunque molto religiose, si confessavano quando andavano fuori, nei pellegrinaggi, ad Assisi, a Loreto, a Padova, a Pompei. E lì, quando gli veniva chiesto perché non si confessavano da tanto tempo, spiegavano il loro dramma con Don Arturo. Questi sacerdoti, più comprensivi, spiegavano loro, anche se in modo diplomatico, che Don Arturo sbagliava, perché Dio non vuole che si mettano al mondo dei figli che poi non si possono mantenere. Don Arturo sosteneva invece che Dio manda sia i figli che i mezzi per allevarli. Un’altra convinzione di Don Arturo era che l’uomo per restare vicino a Dio doveva soffrire e lavorare.  Il benessere allontana l’uomo da Dio e dalla chiesa. C’era chi affermava  di averlo visto girare per le campagne a gettare manciate di semi di erbe infestanti, in modo che i contadini dovessero poi andare ad estirparle. E così, lavorando e soffrendo, non si allontanassero da Dio e dalla religione. Anche Don Arturo, usando il potere della tonaca, aveva trovato posti di lavoro a paesani e non; e in uffici di tutta la provincia c’erano diversi impiegati ignorantucci “sistemati” da lui, con l’aiuto della provvidenza. 

            C’era poi la fioraia donna Rosa, che era rimasta due volte vedova. E che pur avendo ormai tutti i figli sposati ed emigrati, e pur potendo contare per vivere sulla pensione, continuava a fare la fioraia, il lavoro del suo secondo marito. Allora i fiori che si usavano erano soprattutto i garofani, qualche volta i gladioli, i crisantemi in autunno, i gigli a giugno. Quasi per nulla altri tipi di fiori più pregiati. I garofani si usavano per tutte le ricorrenze, tristi e liete. Poi, con il benessere, le cose sono cambiate. Prima si è cominciato a dire che i garofani sono i fiori dei morti. Poi anche per i funerali si sono scelti fiori nuovi ed esotici. Ma allora il garofano per i fiorai era ancora il re dei fiori. Donna Rosa non è che guadagnasse molto a vendere qualche fiore. Lo faceva probabilmente perché era abituata a lavorare e non riusciva a stare senza fare niente.

            In occasione delle feste faceva gli addobbi della chiesa e delle statue per la processione. Per la domenica delle Palme faceva e vendeva le “conocchie”. Con questo nome si indicavano i ramoscelli bianchi di palma intrecciati che la domenica delle Palme si portavano in chiesa a benedire assieme ai rami d’ulivo. Circa un mese prima della festa andava, assieme ad un operaio, a tagliare i rami di palma bianca dal centro delle piante, e se ne tornava con le braccia e le mani sanguinanti sfregiate dalle spine. Poi avvolgeva i rami di palma dentro coperte e li teneva al buio fino ad una settimana prima della festa, quando cominciava il lavoro di preparazione. Qualcosa guadagnava anche in occasione dei funerali, quando doveva fare qualche corona, lavoro in cui era una vera artista nonostante fosse completamente analfabeta. Non sapeva leggere e scrivere, però riconosceva e sapeva contare i soldi. Era una persona allegra e di compagnia; spesso citava un proverbio: “Con una coda di sarda abbiamo mangiato in sette, e con quello che ne è rimasto abbiamo fatto amici”. Era sempre presente nelle feste, soprattutto al “luminare” del santo patrono. Partecipava spesso ai pellegrinaggi: quasi ogni anno andava in qualche santuario.

            Una passione di donna Rosa era l’allevamento dei merli. Lei li comprava ancora piccoli da dei ragazzi che li andavano a prendere nei nidi, e poi cercava di allevarli. Non con molto successo, poiché molti morivano ancora piccoli.

Ogni tanto Concettina prendeva qualche ragazzo che l’aiutasse nel negozio e che svolgesse delle commissioni. Allora si usava mandare i ragazzi “a bottega” o dal “mastro”, non tanto o non solo per fargli imparare un mestiere, ma per tenerli occupati e toglierli dalla strada. In origine si faceva ciò per far apprendere ai ragazzi il mestiere che poi avrebbero esercitato da adulti. Ed erano  i genitori a pagare il mastro per questa sua attività d’insegnamento. In seguito li si mandava sopratutto per tenerli occupati al di fuori dell’orario scolastico, ed anche perché, magari inconsciamente, ci si rendeva conto dell’azione formativa che aveva l’attività manuale. Il mastro dava ai ragazzi una piccola paga, poco più che simbolica. Diverso è il discorso per i ragazzi più grandi, che avevano finito la scuola e che erano dei veri e propri apprendisti e guadagnavano qualcosa che portavano a casa e  con cui contribuivano ad integrare il magro bilancio familiare. C’erano anche alcuni, come gli apprendisti meccanici, che andavano anche nei paesi vicini più grandi. Perciò il pomeriggio, e soprattutto l’estate, c’era chi andava dal falegname, chi dal sarto, chi dal calzolaio, chi dal barbiere, chi al bar, chi nei vari negozi. Meno scelta c’era per le bambine, che potevano andare solo dalla “maestra”: la sarta.

Concettina aveva i suoi cinque figli che l’aiutavano, ma qualche volta pure lei assumeva qualche ragazzo. Stavolta c’èra con lei Antonio, che faceva la quarta elementare ed aveva un aspetto sveglio. Capitò che  venne al negozio un padre con i suoi quattro figli, e si rivolse ad Antonio con l’intenzione di acquistare ai ragazzi merendine, brioscine, patatine, caramelle, ecc. Insomma tutte quelle cose che la pubblicità invita i bambini a comprare e che oggi i pediatri e i nutrizionisti definiscono unanimemente “porcherie” e “schifezze”. I bambini fanno le loro scelte e il padre chiede ad Antonio di fare il conto. Antonio comincia a sommare: tanto per le patatine, tanto per le merendine, ecc., ma viene interrotto dal cliente che gli dice che lui non conosce i prezzi, che i prezzi sono troppo alti, e di chiamare Concettina, che lui è un suo cliente e che Concettina lo tratta bene. Arriva Concettina che dice “Sì, avete ragione, è vero,  il ragazzo non conosce i prezzi, adesso vedo io”, e  manda via Antonio ad occuparsi di altro. Ripete che il ragazzo non conosce i clienti e che gli farà un trattamento di favore con un bello sconto. Vede cosa il cliente ha preso e rifà lei i conti e al totale aggiunge un buon cinquanta per cento in più. Il cliente paga e ringrazia, e va via contento di aver avuto riconosciuta la sua ragione e per avere ricevuto un trattamento di favore.

            Non c’erano in paese negozi di pesce. Il pesce veniva venduto da una pescivendola, che girava per le strade con in testa una grande cesta di vimini che conteneva il pesce e la bilancia a stadera. Non ricordo il nome, perché tutti la chiamavano “la Bagnarota” appunto perché veniva da Bagnara, paese di pescatori. Indossava grandi gonne a colori sgargianti, tipiche di quel paese, e la si poteva riconoscere da lontano. Le donne di Bagnara sono sempre state molto attive e gran lavoratrici, tanto che i maligni dicevano che gli uomini di Bagnara non lavoravano perché lavoravano le donne. Così le bagnarote si spargevano per i vari paesi a vendere il pesce. La nostra Bagnarota la si riconosceva dalla voce. Percorreva le strade gridando il tipo di pesce che portava: “nannàta, nannàta”, oppure “alici, sarde”. Ormai anche i gatti riconoscevano la sua voce, e quando la sentivano da lontano cominciavano a miagolare e le andavano incontro, e poi la seguivano, attirati dall’odore della cesta. A volte aveva le gambe sporche di sabbia di mare, e se qualcuno le chiedeva se il pesce era fresco, gli faceva notare la sabbia sulle gambe e gli diceva che l’aveva appena preso dalla barca ed era subito venuta a venderlo, senza neanche il tempo di lavarsi.

La Bagnarota era stata pure in carcere, perché, oltre al pesce, vendeva anche sale di contrabbando. Allora, chi per un qualunque motivo doveva andare in Sicilia, al ritorno portava con se sempre alcuni pacchi di sale, che lì costava molto di meno perché c’erano meno tasse. Tutti, quando gli capitava, facevano un po’ di contrabbando di sale, e non lo consideravano un grande reato, tanto che a Messina, i negozianti tenevano già pronte confezioni da 10 pacchi di sale “da trasporto”, avvolte in carta di giornale e legate con lo spago. Però la polizia vigilava e qualche volta beccava qualcuno. La madre della Bagnarota, che pure lei da giovane faceva il contrabbando di sale, una volta, sul molo del porto di Messina, aveva buttato in mare due finanzieri, che l’avevano individuata e stavano per arrestarla. La Bagnarota quando andava via doveva aver venduto tutto il pesce. Mica poteva riportarselo indietro. E tanto faceva e tanto insisteva che lo vendeva. Qualche volta che non era riuscita a vendere il pesce alla moglie, se incontrava il marito gli diceva “Comprateci un poco di pesce a vostra moglie. La signora voleva comprarlo ma non aveva soldi con se. Lo volete comprare voi?” E spesso il marito abboccava.

C’era la fornaia donna Maria che aveva un grande forno in cui cuoceva il pane a pagamento. In paese era molto radicata l’abitudine di fare, almeno ogni tanto, il pane in casa, ma in casa non era possibile cuocerlo, perché bisognava avere il forno. Allora lo si andava a cuocere dalla fornaia, che gestiva una specie di forno pubblico. Raramente capitava di vedere i muri della sua casa, perché erano sempre coperti da enormi fascine di frasche che vi stavano appoggiate, e prima ancora che venissero consumate il massaro Giacomo portava, con il suo carro trainato da buoi, le altre che dovevano rimpiazzarle. A queste frasche attingevano anche i ragazzini che giocavano col fuoco. C’era l’usanza, per la festa patronale, di fare un grande falò, il “luminare”, ed i bambini, che sempre imitano gli adulti, facevano il loro piccolo luminare con qualche ramoscello rubato alla fornaia. La fornaia disponeva di assi di legno, grandi quanto un tavolo, che consegnava alle sue clienti, che le portavano in testa,  con sopra le pagnotte crude, coperte da una tovaglia. Ogni famiglia faceva sulle sue pagnotte un proprio segno, in modo da poterle riconoscere tra le altre. Dopo la cottura, sempre sulle stesse assi, le pagnotte venivano riportate a casa. La fornaia era una donna anziana, sempre vestita di nero. A volte, quando gliene cadevano per terra, prendeva le braci con le mani e le ributtava nel forno. Da lei c’era spesso gente, quelle che aspettavano la cottura del proprio pane, persone di passaggio che si fermavano per chiacchierare e stare un poco al caldo del grande forno. Anche il forno era un punto d’incontro. L’attività del forno ferveva soprattutto nei periodi festivi, di più a Pasqua, quando, oltre al pane, si preparavano pure i dolci.

Si usava soprattutto quello che veniva chiamato “pane di grano”, fatto cioè con farina integrale (contenente pure la crusca). Quello che usiamo noi oggi, e che veniva chiamato “pane bianco” era poco usato, e veniva dato soprattutto ai malati. Quando si chiedevano a qualcuno notizie di un familiare malato, e questi rispondeva “il medico gli ha prescritto di mangiare pane bianco” si capiva che ormai non c’era più niente da fare.

Erano comunque poche le famiglie che facevano il pane in casa. La maggioranza lo andava a comprare nei negozi.

            Un altro episodio dell’attività di Concettina riguarda appunto la vendita del pane. Una mattina, verso l’orario di chiusura, arriva una cliente portando il pane che aveva comprato poco prima. E dice “Signora Concetta, che mi avete venduto? Questo pane non è buono.” Concettina quella mattina aveva finito tutto il pane e non glielo poteva cambiare. Comunque non si perde d’animo. Toglie il pane dalla carta e dice “Oh signora mia, è vero. Questo pane è proprio brutto. Non so come sia potuto succedere. Certo che pane così brutto nel mio negozio non ce n’è mai stato. Ve lo cambio subito”. Prende il pane e lo mette sotto il bancone. Fa finta di girare e riprende lo stesso pane, lo mette nella stessa carta e lo riconsegna alla cliente che se ne va via contenta.

            Conducendo questa vita Concettina era riuscita ad allevare da sola i suoi cinque figli, ed anche adesso che i figli sono tutti sposati e lei ha i capelli grigi, continua ancora a lodare i consumi della signora Birbante e a chiedere se si vogliono comprare le patate di quelle buone, “pasta gialla”, o di quelle altre, “quelle che prendono tutti”.

 

Elenco articoli

     Concettina

1   Addebiti Telecom

2   Prezzi con I.V.A.

3   Una nuova parabola

4   Trasporti ferroviari

5   Giustizia e potere politico

6   Sul cambio di moneta

7   Lavori pubblici

8   Gli aneddoti su Richelieu e
     i politici del tempo presente

9   Se Berlusconi diventa papa

10 Radio e televisione:
     due mondi che non si
     incontreranno mai





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